di Luigi Pirandello
con Gabriele Lavia
e con
Federica Di Martino, Clemente Pernarella, Giovanna Guida, Mauro Mandolini, Lorenzo Terenzi, Gianni De Lellis, Federico Le Pera, Luca Massaro: la Compagnia della Contessa,
Gabriele Lavia: Cotrone detto il Mago,
Matilde Piana, Ludovica Apollonj Ghetti, Michele Demaria, Simone Toni, Marìka Pugliatti, Beatrice Ceccherini – iNuovi: gli Scalognati,
Luca Pedron – iNuovi, Laura Pinato – iNuovi, Francesco Grossi – iNuovi, Davide Diamanti – iNuovi, Debora Rita Iannotta, Sara Pallini, Roberta Catanese, Eleonora Tiberia: i Fantocci (personaggi della Favola del figlio cambiato)
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Antonio Di Pofi
luci Michelangelo Vitullo
maschere Elena Bianchini
coreografie Adriana Borriello
regia Gabriele Lavia
produzione Fondazione Teatro della Toscana
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino, Teatro Biondo di Palermo
con il contributo di Regione Sicilia
e con il sostegno di ATCL Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio, Comune di Montalto di Castro e Comune di Viterbo
durata: 2 ore e 25 (compreso intervallo)
Gabriele Lavia, dopo i Sei personaggi in cerca d’autore e L’uomo dal fiore in bocca… e non solo, chiude la sua personale trilogia pirandelliana con I giganti della montagna, l’ultimo dei miti, testamento artistico di Luigi Pirandello, punto più alto e sintesi della sua poetica. Una compagnia di teatranti guidata dalla contessa Ilse arriva alla villa detta La Scalogna dove vive uno “strano” mago che dà loro rifugio. Alla fine del II atto scrive le ultime cinque parole della sua vita e di tutto il Teatro delle maschere nude: “Io ho paura, ho paura…”.
Trama
Una compagnia di teatranti guidata dalla contessa Ilse arriva alla villa detta La Scalogna dove vive uno “strano” mago che dà loro rifugio. Ma chi è Cotrone? «Lo sanno tutti, è lo stesso Luigi Pirandello» scrive Gabriele Lavia nelle note di regia. «Ma Cotrone è anche qualcosa di più. È colui che vive rifugiato o emarginato nella propria illusione che il Teatro possa essere il Luogo Assoluto. Fuori da ogni contaminazione. Lontano da quei Giganti, da quelle “forze brute”, da quegli uomini (forse noi stessi!) che mettono paura solo a sentirli passare al galoppo!… I Giganti sono uomini che hanno dimenticato la coscienza della loro origine. Snaturati dal non voler conoscere se stessi. E dunque non possono far altro che continuare a uccidere la “poesia originaria” nata come specchio dell’uomo… uccidere il Teatro. Ma il finale “non scritto” vorrei che fosse una speranza, meglio, una certezza laica, che “la poesia non può morire”».
Note di regia
Ho sempre pensato che i “ragionamenti” così “appassionati” e “freddi” dei personaggi pirandelliani non fossero che delirio, fuoco. Il suo razionale, costante, lucido rovello fosse calor bianco e la sua dialettica, lucida e distaccata, fosse proprio il ronzio di una “mosca impazzita dentro una bottiglia”.
La trasparenza del vetro rende indecifrabile e incomprensibile la “trappola” dentro cui si è infilata.
L’esistenza di questa piccolissima “bestia” non è altro che un inutile volo ronzante e pazzo: una vita priva di senso. “Siamo rimasti nel mistero e senza Dio”.
È noto che Pirandello, giovane studente all’Università di Bonn, alle domande preliminari per l’ammissione, una delle quali era quale fosse la religione professata, rispose: “Ateo”. Il segretario che redigeva la piccola inchiesta sollevò lo sguardo per qualche secondo. Il giovane Pirandello scrisse, poi, alla sorella: “A Bonn, ogni due abitanti, tre sono bigotti.”
Il “mistero senza Dio”, la bottiglia invisibile che intrappola la Mosca Uomo, è l’“oltre”.
L’ “oltre” è qualcosa che non può essere colto, ma che ci coglie. Tutta l’opera di Pirandello ruota intorno a questo “mistero” e si protende verso il mistero dell’“oltre”, trappola trasparente, invisibile, ineludibile, incomprensibile dell’uomo.
La trappola è una famosa novella, appunto, di Luigi Pirandello.
L’irrazionale, l’onirico, il misterioso, il teosofico, lo spiritico, proteso (nel suo modo di ateo) al divino, ma in senso “greco”, sono presenti nella sua opera. E sono la “bottiglia” dentro cui “ronza”, fino a estenuarsi, il suo delirante racconto poetico dell’uomo intrappolato.
La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili, determinate dentro e fuori di noi, perché noi siamo già forme fissate e la coscienza è una momentanea costruzione di finzioni psichiche oltre le quali c’è un’altra realtà che per noi è inconoscibile: schiavi come siamo della “bestia” che è in noi.
L’ “Umorismo”, che il “grande” lo fa “piccolo” (l’uomo è una mosca, la vita è una bottiglia) è, per definizione, quel “sentimento del contrario” che serve per rovesciare e scardinare tutte le certezze e talora infrangere la bottiglia-trappola e trovarsi… “oltre”; magari con “la testa rotta”, ma… “oltre”.
I giganti della montagna è certamente il punto più “alto” di quell’ “oltre”. Oltre l’esistenza sconciata della vita-trappola.
Nella Villa La Scalogna, il cui padrone, non a caso, è il Mago-Cotrone-Pirandello, accadono le magie dell’Arte: straordinari prodigi che non hanno bisogno di mezzi materiali per accadere.
Accadono e basta. E “vanno accolti”. Questi eventi sono possibili solo nel mondo dell’“oltre”, della fantasia, della sovra-realtà, ai confini della coscienza, ai margini dell’esistenza, dove finiscono quel gruppo di attori sperduti e disperati (perché senza più un Teatro dove recitare), goffi sacerdoti di un’arte delusa, infelice, incompresa, impoverita com’è diventato il Teatro.
“Tempo e luogo (dice la didascalia) indeterminati, tra la favola e la realtà”.
Ed è in questo “luogo sospeso”… in questo “tempo non misurato… che il Teatro può accadere… nella “finita infinità” che è la solitudine dell’ “anima sola con se stessa”.
Noi sappiamo che Pirandello “sapeva con certezza” di dover morire mentre scriveva i Giganti, il cui titolo iniziale doveva essere I fantasmi.
Al medico che lo visitava aveva domandato, un po’ irritato, (lo era sempre quando non stava bene): “Dottore mi vuol dire che è questo?”. E il dottore gli aveva risposto: “Professore… lei non deve aver paura delle parole…. questo è… morire.”
Pirandello, che stava scrivendo una nuova sceneggiatura del Mattia Pascal, la mette da parte e scrive i Giganti di cui aveva già alcune scene del primo atto.
Alla fine del secondo atto scrive le ultime cinque parole della sua vita e di tutto il Teatro delle maschere nude: “Io ho paura, ho paura…”
È proprio quell’ “Io…” che mi fa pensare che Pirandello sapesse, e con paura, che non avrebbe mai scritto il terzo atto, lasciando I giganti della montagna meravigliosamente compiuti nella perfetta incompiutezza umana.
Gabriele Lavia