(Teatro Vittorio Emanuele)
Due soggetti, uniti dalla comune sorte di un processo che reciprocamente li attende, disquisiscono e si interrogano intorno ai temi del Giusto e dell’Ingiusto, concetti apparentemente opposti ma che, per la magia argomentativa di un interlocutore quale Socrate, si mostrano inscindibili volti diversi di una medesima medaglia. Un “processo alle parole”, risultato di un percorso genuinamente volto alla riscoperta del valore della complessità, che apre le parole ad un’immagine inattesa di sé, opposta al senso comune, al pregiudizio, al comodo svuotamento di senso di una società volta alla conoscenza acritica.
“Dalla constatazione dell’assurdo alla fiducia nell’amore. Questo è il cuore di T-Empio. Carullo/Minasi lo dicono praticamente così, nella sua semplicità. Riuscendo però a non essere banali, perché a questa verità arrivano attraverso le ferite: e quanto sarebbe bello se questo teatro fosse qualcosa di più, se fosse la metafora di una svolta nuova che è antica da sempre”.
Chiese, Palazzi di Giustizia e Teatri: luoghi immaginati tra di loro diversi, ma da millenni uniti dalla ricerca dell’uomo volta alla scoperta della Verità. Per entrare in ognuno di questi Templi, miracolo architettonico ha suggerito ingressi con gradinate d’accoglienza, forse metafora di possibile ascesa verso tentativi di Conoscenza.
Sulla gradinata del Palazzo di Giustizia due soggetti uniti dalla comune sorte di un processo che reciprocamente li attende, l’uno accusante e l’altro accusato per processi diversi, disquisiscono e si interrogano intorno ai temi del Sacro e dell’ Empio, concetti apparentemente opposti -ma che per la magia argomentativa di un vero confronto- si mostrano inscindibili volti diversi di una medesima medaglia. E allora il miracolo poetico si svolgerà non nell’aula di tribunale -spesso burocratico Tempio della conferma dell’ Empio- ma sui gradini di una scalinata lì dove, secondo corretto processo di analisi delle parole, s’incontrano due uomini che compiono realmente il rito dell’azione processuale.
Il “Sacro”, s’apre ad un’immagine inattesa di sé, opposta al senso comune, al pregiudizio, al comodo svuotamento di senso di una società, quale la nostra, volta alla acritica conoscenza di ciò che gli arriva come già dato. Fondamentale in tal senso procedere per sottrazione, disfarsi di tutto quanto si crede di sapere, per continuare a stupirsi della straordinaria varietà della realtà e delle sue infinite assurdità.
Giochiamo a sfidare le parole, tentando di restituire alle stesse -mettendole e mettendoci in discussione- non un pregiudizio ma un valore, non un contorno ma un contenuto. La parola, attiva, ripulita del suo contenuto persistente e di routine, trova restituita -in forza della capacità poetica di cui è portatrice- la sua immagine inaspettata, fatta di complessità, angoli e perplessità, forse Verità.
Così, prendendo in prestito dalla terminologia giuridica la definizione di azione processuale, ragioniamo intorno all’accadimento, dunque all’azione che è miracolo ravvisabile solo se ci si predispone con la logica del processare, non per giustiziare, ma per ricercare. Un processo, così, che diventa percorso genuinamente volto alla ricognizione del paradosso della Verità e non piuttosto raggiro e strumento per ogni forma di aberrazione e finzione contemporanea.
E’ il nostro contributo poetico/politico per un processo metologico/educativo che rimandi ai modi dell’ Accademia Socratica: “…gli Ateniesi, a mio parere se ritengono che uno eccella per il suo sapere, non si preoccupano gran che, purchè egli non intenda far da maestro ad altri. Ma se ritengono che uno, essendo sapiente, sappia rendere anche altri sapienti come lui, allora si irritano, sia per invidia, sia per qualche altro motivo. Se gli Ateniesi avessero solo intenzione di ridere di me, non sarà per nulla spiacevole trascorrere un po’ di tempo in tribunale scherzando e ridendo. Ma se faranno sul serio, dove la cosa andrà a finire, è ignoto a tutti …” (Eutifrone di Platone)
Si celebra il dubbio o, forse, la vita volta a finire con l’incertezza più grande:la morte, simbolica porta da attraversare con il cappio dalla sinuosa forma dell’ interrogativo proprio donatoci dalla vita.
“Lo spettacolo che mi ha più colpito, fra quelli proposti nelle prime sere, è stato senza dubbio T/Empio – critica della ragion giusta, la nuova creazione di Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, la coppia messinese già rivelazione del Premio Scenario 2011. I due sono un fenomeno a sé stante, dall’ insolita capacità di costruire dialoghi dall’andamento acremente surreale, a metà fra un teatro dell’assurdo vecchia maniera e una grottesca esasperazione delle loro relazioni quotidiane. Qui l’incalzante scambio di domande e di risposte con cui tentano di sopraffarsi a vicenda prende le mosse dall’Eutifrone di Platone: ma il dibattito tra Socrate e il suo interlocutore su ciò che è sacro e ciò che è empio, su ciò che è giusto o non giusto diventa una bizzarra disputa fra due sconosciuti nelle nelle vie di una città, poi un toccante specchio del personale interrogarsi dei due attori, del loro essere insieme nella vita e nell’attesa della morte, separate da una simbolica porta da varcare.”
Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi si presentano in una scena stilizzata, cartonata, in bianco e nero, occupata al centro dalla sagoma di una porta vuota: «Torno subito», dice un cartello appeso; anzi, immaginate la scritta allo specchio, sul reverso, perché è così che la leggerete, accorgendovi subito di essere voi, pubblico, l’interno dell’edificio teatrale che prende vita stasera.
All’esterno della porta stanno Carullo e Minasi, allogati come oggetti scenici spaesati, anche loro in bianco e nero, la biacca in volto. Hanno al collo i simboli, anch’essi di carta, di quello che sarà il rispettivo atteggiamento nel dialogo che sta per cominciare: uno scialle a forma di punto interrogativo lei, una cravatta “esclamativa” lui. Questa coppia di attori, che scrive e dirige i propri lavori, emana un’energia spontanea: anche la presenza fisica, allora, si unisce in qualche modo alla stilizzazione scenografica, completando un quadro inesorabilmente beckettiano, in cui però la cifra clownesca è sostituita da un’atmosfera da film muto di primo Novecento. Dico «inesorabilmente» perché in “T/Empio – Critica della ragion giusta” l’influenza del teatro dell’assurdo è troppo esplicita, fin dall’inizio, per non lasciare il sospetto che certi tratti siano lo schermo di un’operazione più profonda. Il testo s’ispira all’”Eutifrone” di Platone, inserendone gli spunti in un contesto drammaturgico astratto, statico, da processo kafkiano. Carullo e Minasi, cioè, aspettano in una sorta di aldilà il ritorno di un giudice che non dà traccia di sé, e la cui assenza apre un precipizio tutto interiore. Il dialogo inizia con un gioco alla Achille Campanile, un «mi scusi?» che pencola ambiguamente tra la formula di cortesia e la richiesta propria di perdono. Gli snodi discorsivi e filosofici, però, cominciano a svilupparsi fra le pause e i vicoli ciechi del dialogo, trascinati sottovoce dalla relazione fra i due personaggi, la cui apparente immobilità lascia gradualmente intuire, in controluce, una linea emotiva e perfino commossa. Nel dipolo scenico, la Minasi svolge il ruolo interrogante, demistificatorio: è lei a intelaiare l’elogio del dubbio, a mettere in discussione le certezze di Carullo (già smascherate dal suo atteggiamento fisico) con una sorta d’intervista sul giusto, un socratico “ti esti”; isolare il «santo» dall’«empio» è impossibile, anzi, il tentativo inane di nominare le due qualità già mostra la circolarità viziosa del linguaggio e delle idee. Proprio in quello che potrebbe essere uno stallo, però, Carullo/Minasi fissano le radici della loro divergenza dalla drammaturgia dell’incomunicabilità. Senza mai abdicare in alcun modo all’idea di ricerca e rigore filosofici su cui “T/empio” si fonda, il testo apre margini di positività: s’insiste più volte sul valore della parola come bene comune, comunicazione (“cum-munus”, condivisione del dono). La parola è vuota (e qui si rimanda, forse, alla “différance” di Derrida, allo scacco del linguaggio al soggetto), ma se le dai tempo, se si ha fiducia nello stratificarsi del significato e nella problematizzazione condivisa che ne segna l’interpretazione, allora questa parola potrà comunque partorire un valore comune e plurale. Anche se chi sta davanti alla fila, chi è il primo a rischiare, chi per primo mette in discussione il paradigma di un’epoca e delle sue parole chiave, non può che star male: come Carullo inquadrato dagli stipiti della porta, il volto imbalsamato dal terrore, dal disagio, che chiede alla compagna di passargli davanti, di concedergli il conforto e la protezione di chi è secondo. Come se soltanto dal dolore altrui potesse nascere la propria sicurezza, nell’impossibilità di essere secondi insieme: perché ci si troverebbe entrambi primi.
Lo spettacolo si sviluppa così, alternando al registro della dissertazione una cospicua dose d’ironia metateatrale:chissà,forse le aporie del ragionamento sono soltanto errori di memoria.
La composta e assertiva rabbia di Carullo si scontra col pungolo inquisitorio (ma vitale, appassionato) della Minasi, innervando il dialogo di slanci filosofici, la cui verticale viene ritmicamente mozzata dai ritorni all’assurdo: finché l’esposizione del confronto non comincia a fiaccare, come la pellicola bruciata da un diaframma rimasto troppo a lungo aperto. E allora, urla Carullo, «basta con tutto questo senso, perché dobbiamo continuare a parlare?». Ma una risposta si può dare. E, stavolta, non è razionale, ma tutta emotiva.
La sfida coraggiosa di “T/Empio”, che gli è valsa la vittoria del festival Teatri del Sacro 2013, sta proprio qui. L’impalcatura drammaturgica del teatro dell’assurdo serve a Carullo/Minasi per sorreggere e giustificare uno dei rischi più nobili: quello di insegnare. Il monologo finale della Minasi altro non è se non un partecipe e commosso insegnamento: un monologo che, proprio perché in precedenza si è passati attraverso l’assurdo, può permettersi di essere tutto il contrario dell’assurdo. «Con decisione alzo il dito e dico che non lo so»: in quest’apertura può inserirsi l’accettazione della morte, del dubbio, della condivisione. La scena, allora, può diventare orlo della vita, foglio bianco, sfida all’intelligenza: e il monologo avere una semplicità estatica da far pensare a certe pagine commoventi di Simone Weil.
Dalla constatazione dell’assurdo alla fiducia nell’amore. Questo è il cuore di “T-Empio”. Carullo/Minasi lo dicono praticamente così, nella sua semplicità. Riuscendo però a non essere banali, perché a questa verità arrivano attraverso le ferite: e quanto sarebbe bello se questo teatro fosse qualcosa di più, se fosse la metafora di una svolta nuova che è antica da sempre.
Sullo sfondo, schiacciato in basso, si scorge il profilo squadrato di una città; in proscenio, fluttuante a mezz’aria, la porta di un possibile tribunale. È qui che si incontrano i due personaggi, a metà strada: lui (Giuseppe Carullo) è un accusatore e sa tutto, lei (una bravissima Cristiana Minasi) è un accusato e non sa, o meglio, come avrebbe detto Socrate, “sa di non sapere” (ed è proprio all’Eutifrone di Platone che i due – registi, drammaturghi e interpreti – si sono ispirati). Dalla porta però pende un cartello che recita: “Torno subito”; insomma, il giudizio è sospeso. Ecco allora che la coppia, bloccata su una soglia che è condizione esistenziale, si ritrova a dialogare: s’interroga sulle parole, sul loro significato, e ogni volta approda al vuoto, alla rabbia e alla paura di un’impossibile definizione.
In T/Empio l’antica lezione greca si colora, dunque, di sfumature tipicamente novecentesche. Si scorge l’influenza di Beckett: l’eterna attesa, la tautologia delle parole, l’impossibilità di comunicare, la metateatralità; e molte scelte formali (musiche, abiti, trucco, pantomime) che ricordano le migliori commedie mute anni Venti. Ma a sorprendere più di ogni altra cosa è forse il monologo finale – profondo, spiazzante -, che nella sua apparente semplicità riecheggia una ricerca del vuoto, intesa come superamento dello spazio (qui della parola), che dalla famosa pagina bianca di Sterne sembra traghettare idealmente fino all’arte concettuale di Yves Klein, in un brillante connubio di tradizione e innovazione, umorismo e filosofia: «Quand’ero bambina cancellai tutte le righe al mio foglio bianco, disegnai un’enorme nuvola. Venni bocciata. Ma non fu un fallimento, fu il mio più grande orgoglio: avevo scritto del vuoto, avevo riempito il mio spazio vuoto».
Tratto dall’Eutifrone, dialogo di Platone, scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, T/Empio – Critica della ragion giusta è uno spettacolo che pare riuscire nell’intento di lasciare agli spettatori interessanti spunti di riflessione. Già dall’entrata nel Complesso di San Micheletto, tra le sedi principali della presente edizione dei Teatri del Sacro, l’allestimento non manca di suscitare curiosità e una certa impazienza da parte del pubblico accorso e che, causa i posti limitati, non potrà avere completamente accesso alla sala.
I due protagonisti in scena, servendosi dell’ironia accompagnata da frequenti interventi metateatrali, suscitano sorrisi ed espressioni compiaciute sui volti degli spettatori testimoni dell’evento scenico: inizialmente presentati come opposti, vestiti entrambi di nero con cravatta bianca (una a forma di punto esclamativo, l’altra di interrogativo), finiscono per costituire le due facce opposte della stessa medaglia. Uniti dalla comune situazione di attesa, si interrogano sui temi del Sacro e dell’Empio, concetti anch’essi apparentemente opposti, per poi rivelarsi strettamente connessi.
È in una scenografia consacrata al nero, rappresentazione minimalista d’una bianca città, vuota ed esibita come fosse un piccolo fumetto, sormontata da un cartello con la scritta “torno subito” di una giustizia costretta in un tribunale fatiscente, che si svolge il dialogo tra l’uomo e la donna. I due attori, attraverso giochi di parole, mirano a far comprendere quanto siano spesso privi di senso numerosi aspetti della nostra società, di cui lo stesso Giuseppe Carullo è allegoria. Da un lato, egli presenta le proprie idee come solide e giuste; dall’altro, Cristiana Minasi le smonta, facendole apparire insensate e incoerenti, ponendo a sé stessa e all’interlocutore scenico continui interrogativi nei quali è protagonista la parola. È proprio questa, la parola, principale e fondamentale elemento della rappresentazione stessa, che muta di senso a seconda delle situazioni, costringendo il pubblico alla riflessione, al dubbio, all’indagine senza sosta. E si conclude così lo spettacolo, con un emozionante monologo della Minasi sulla colpa e l’attesa di giudizio, calando gli spettatori nel silenzio di una riflessione sulla ricerca e sulla verità.
[…] Tratto dall’“Eutifrone” di Platone, lo spettacolo “T/Empio-critica della ragion giusta” presentato dalla compagnia messinese Carullo-Minasi. Il dialogo tra Socrate e Eutifrone diventa una azione processuale sulla definizione di sacro e di empio.
“Lo spettacolo – ci racconta l’interprete e regista Cristiana Minasi – è frutto di una ricerca che da diversi anni stiamo conducendo sulla triade amore-sacro-arte, ispirata ai testi di Platone. L’obiettivo è lavorare sui templi della ricerca della verità, la scuola, la chiesa, il tribunale: per noi santo è ricerca, niente potrà mai esistere in forza di un tentativo di ascendere verso possibili conoscenze. Anche la morte, che alla fine sopraggiunge per Socrate, diventa possibilità di continuare il cammino di conoscenza”.
Una ricerca messa in scena attraverso l’espediente del processo, etimologicamente “avanzare”, “progredire”, e non “con-fermare l’empio”, una azione cioè “che permette un accadimento”: “Mettiamo in scena il dubbio attorno alla possibilità – spiega Minasi – e il festival ci ha dato la spinta e lo stimolo a compiere questa ricerca, a lavorare su un tema così alto”.
Già protagonista della prima edizione del Festival nel 2009, la compagnia si interroga da alcuni anni sul tema del sacro: “Il sacro per noi non si può arrivare a definirlo – ammette Minasi -. E credo che questa sia la più grande risposta, perché in realtà altro non si può fare che cercarlo per tutta l’esistenza perché si possa giustificare questo nostro incedere verso un oltre: in questo è la sacralità, nella doppia forza tra sacro e santo, che genera il dubbio”.